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Il Ventennio e le città. Linsulto automatico di tutt'erba un fascio
Alfio
Marchini, candidato a sindaco di Roma per il centrodestra, ha affermato
che Benito Mussolini fu un grande urbanista. I soliti ‘trinariciuti’,
per usare un’espressione di Guareschi, l’han subito bollato come
‘fascista’. Che il fascismo abbia avuto una valida urbanistica è fuori
discussione. C’è stata un’urbanistica sociale durante il Ventennio di
cui fan fede, per esempio a Milano, le case per i maestri con facciate
in bugnato e i giardini dietro. Il fascismo voleva dare dignità
all’istruzione e quindi anche i semplici maestri dovevano avere una
sistemazione adeguata. Oggi quelle case sono di gran pregio. Lo stesso
si può dire per le case dei ferrovieri, su tre piani e con un grande
giardino che nel dopoguerra furono abitate dai giornalisti formando il
cosiddetto ‘villaggio dei giornalisti’. Sempre a Milano fu costruita una
piscina popolare, a prezzi contenutissimi, come la Cozzi. E per stare
nell’architettonico quasi davanti a casa mia c’è la Stazione Centrale
che quando ero ragazzo consideravo un monumento al kitsch e che invece è
stata poi imitata da molte città europee. Lo stesso, o quasi, si può
dire per la Casa della Cultura nel quartiere dell’Eur di Roma, Casa e
quartiere ideati e costruiti anch’essi dal fascismo che ebbe uno stile
architettonico inconfondibile, a differenza dell’accozzaglia che è
venuta su nel dopoguerra.
C’è
poi la legge a tutela di Firenze, contro la speculazione edilizia che
ne ha salvato la compattezza, a differenza, poniamo, di quanto è
successo nel dopoguerra per un’altra grande città d’arte come Roma. Ci
sono le bonifiche dell’Agro Pontino con casali e terreni disegnati a
regola d’arte per l’insediamento dei contadini fatti venire dal Friuli,
dal Veneto, dal delta del Po (si legga in proposito il libro di Antonio
Pennacchi Canale Mussolini). C’è la costruzione ex novo di
città di media grandezza come Littoria, oggi Latina, o la
valorizzazione di Pescara da piccolo borgo a città o la disseminazione
sul territorio agricolo di altri piccoli centri. E si potrebbe
continuare. Anche su altri piani. L’IRI fu un’intelligente risposta alla
crisi del ’29 che l’Italia riuscì di fatto a non subire (è anche vero
che la globalizzazione non era quella di oggi) e non è colpa del
fascismo se nel dopoguerra l’IRI diventerà un immondo carrozzone in
prevalenza democristiano ad uso clientelare. C’è il tentativo,
difficile, di conservare parte della struttura agricola del nostro
territorio (‘la battaglia del grano’) senza con ciò ostacolare
l’inevitabile progresso industriale. Una politica che se proseguita nel
dopoguerra, invece di costruire cattedrali nel deserto, ci tornerebbe
oggi molto utile dal momento che è evidente che un ritorno alla terra,
sia pur non con i buoi e l’aratro a chiodo, si presenta sempre più
necessario. Insomma il fascismo ebbe un’idea di Stato e di Nazione che
cercò di perseguire con coerenza, idea che manca completamente alle
classi dirigenti di oggi siano esse di sinistra o di destra.
Ma
non è mia intenzione fare qui, nemmeno a volo d’uccello, la storia del
fascismo nei suoi aspetti positivi e non solo in quelli, ampiamente
noti, negativi e inaccettabili (le leggi razziali, l’entrata in guerra
impreparati, la sconfitta, la creazione della Repubblica di Salò che
pose le basi della guerra civile). Quello che mi preme sottolineare è
che il fascismo godette di un vastissimo consenso, per lunghi anni
sincero, e questo non lo dico io ma l’ha scritto già nel 1974 lo storico
Renzo De Felice. Ora, usare il termine ‘fascista’ (inteso in senso
storico e non antropologico) come un insulto e considerare il fascismo
(storico) solo una serqua di nefandezze fa torto alla nostra
intelligenza. Vorrebbe dire che tutti i nostri padri o nonni sono stati
dei manigoldi, mentre noi siamo delle ‘anime belle’ solo perché viviamo
in una democrazia, vera o presunta. Le cronache dell’ultimo quarantennio
per non parlare di quelle di questi anni, mesi e giorni, lo smentiscono
brutalmente.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2016
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